Se regalate o ricevete una mimosa, è per Teresa Mattei: partigiana, comunista, attivista per i diritti delle donne, che convinse tutti a scegliere il fiore «più povero» che esista
Qualcuna la accetterà per entusiasmo, qualcuna per educazione; qualcun’altra risponderà che no grazie, non è più tempo. Tra tutti i fiori, la mimosa è il più capace di dividere l’omaggiata. La tradizione di regalarla per la Festa dell’8 marzo, tutta italiana, è sempre più in declino, viste le (legittime) opposizioni a una festa vissuta da molte come anacronistica. Ma la storia della sua «creatrice» , quella sì, è una celebrazione della donna, che comprende una guerra, un paio di arresti e qualche rifiuto dettato da onestà intellettuale.
Si usciva dalla guerra, dunque. L’Italia raccoglieva le sue macerie, le donne andavano per la prima volta al voto, e qualcuno, visto che Mussolini non c’era più, propose di reintrodurre la festa dell’8 marzo, oscurata per vent’anni dai fascisti perché considerata troppo di sinistra. La Dc era piuttosto fredda, la sinistra no. I potenti discutevano di un simbolo di simpatia immediata, magari un fiore. Dei notabili del Partito comunista proposero la violetta, simbolo della sinistra europea. Ma alcune parlamentari si opposero: era un fiore costoso e difficile da trovare. Troppo ricercato.
A quel punto, prese la parola tale Teresa Mattei. Donna dalla vita epica, Teresa. Nata a Genova un anno prima dell’avvento del fascismo, al liceo si distinse per aver protestato contro l’insegnante che stava elogiando le leggi razziali. Durante il ventennio venne arrestata due volte, prima dai fascisti, poi dai nazisti. Fu partigiana, ovviamente. «Chicchi», il nome di battaglia. Finita la guerra, se ne andò coi comunisti. Divenne la più giovane eletta nell’Assemblea Costituente ed entrò nel nuovo Parlamento facendo la gioia di Togliatti: la prima segretaria d’aula, una comunista.
Durante quelle interminabili riunioni per la scelta di un fiore, fece notare che «la campagna nei dintorni di Roma profumava tutta di mimosa». La mimosa sì, che era un fiore povero, e facile da trovare ovunque. «Era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette», ricorderà anni dopo. «Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente». Luigi Longo, futuro segretario del partito, rimase incantato. Proposta accettata.
Fu così che la mimosa divenne il fiore degli anni che seguirono. Teresa Mattei, invece, vide ben presto infrangersi dentro il palazzo del potere l’illusione di una parità di genere che aveva visto durante la guerriglia partigiana: «Le donne in guerra avevano guidato treni, fatto le postine. Finita la guerra erano state rimandate a casa». Venne messa all’angolo persino dal suo partito, più bigotto di quanto non volesse lasciare intendere. Quando rimase incinta di un uomo sposato, si rifiutò di abortire come le aveva ordinato Togliatti. «Le ragazze madri in Parlamento non sono rappresentate, dunque le rappresento io», si impuntò, diventando, agli occhi del capo, «la maledetta anarchica». Lei se ne sbattè e iniziò a denunciare la dittatura del compagno Stalin. Un peccato imperdonabile, nel Pci alleato della Russia. Non si fece più eleggere, Teresa Mattei. Non poteva.
Finita l’esperienza parlamentare, continuò a fare politica, ma in altro modo. Si occupò di diritti dei bambini, dei diritti delle donne, della parità. Fino a a quando non si spegnerà nel 2013, a 92 anni. «Eravamo convinte che quelle leggi sulla parità sarebbero entrate subito in vigore, ma nemmeno un terzo di quanto è stato sancito dalla Costituzione si è realizzato», commenterà amaramente. Il ricordo più bello però ce l’ha per questa giornata qua: «Quando nel giorno della Festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».
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