E’ morto un ragazzo
E’ il 17 aprile 1975, sono all’obitorio di Milano a pochi passi da casa mia.
C’è gente con me nella stanza, ma ricordo solo Paola, mia compagna di collettivo.
Sta toccando il viso di Claudio, gli riordina i capelli sulla fronte. Penso che siamo
troppo giovani per essere qui a vegliare un amico della nostra età e penso che lei,
Paola, sembri una madre antica, nonostante i suoi 18 anni appena compiuti.
Lo accarezza con delicatezza, non piange ma gli parla sottovoce, lo guarda con
una pietà infinita. Ecco, lei e Claudio sembrano una pietà scultorea. Solo che la
Madre non ha il figlio in grembo, lui è adagiato su un lettino di metallo. Ha gli occhi
chiusi e pare che dorma. Ha un piccolo foro nero dietro l’orecchio, il segno
lasciato dalla pallottola che l’ha ucciso. Non piango, non ci riesco o forse non
voglio, o forse non è ancora l’ora del pianto. Mi vengono solo questi pensieri
assurdi “Come può uccidere un buchino così piccolo?”
So già che non dimenticherò mai più questo momento, come non dimenticherò
mai la sera prima, quando mi hanno telefonato da Piazza Cavour, dicendomi di
andare lì subito e io ci sono andata, senza far ulteriori domande, disciplinata come
sempre. Ricordo che stavo guardando Miracolo a Milano alla televisione.
Ho investito tutti i miei scarsi averi in un taxi, erano quasi le dieci di sera e con i
mezzi non sarei arrivata mai.
Il tassista mi lascia all’angolo tra Corso Venezia e Via Palestro, la polizia
c’impedisce di proseguire in auto Scendo e chiedo a dei vigili cosa sia successo,
mi rispondono che è morto un ragazzo.
E’ morto un ragazzo……………
Se qualcuno che conosco muore, il ricordo diventa per me sensoriale e, più la
persona mi era vicina, più diventa intenso. Non penso più a “quando mi ha
detto…..”, “quando abbiamo fatto……..”, il suo ricordo viene consegnato ad una
specie di videoteca, dove però non c’è solo immagine, ma sono coinvolti anche gli
altri sensi e mi sembra di risentire il suo braccio intorno alle spalle, il tono della sua
voce o il profumo vago di sapone da bucato che emanavano i suoi vestiti.
La prima cosa che mi viene in mente e che ho bisogno di ricordare dove l’ho visto
vivo per l’ultima volta.
Era stato poche ore prima, al concentramento della manifestazione per la casa in
Corso Garibaldi. Nonostante nessuno di noi fosse particolarmente studioso,
condividevamo un discreto interesse per la storia dell’arte., insegnataci a scuola
da uno dei rari prof. in gamba che sapevano coinvolgerci.
Proprio lì c’era una chiesa splendida, San Simpliciano. Mi guardo intorno, ma
Claudio non è in vista, allora entro con una compagna di scuola, anche se con un
minimo senso di colpa per non averlo cercato.
Quando usciamo, lui è lì fuori “Che str…!” ci apostrofa subito à la mode di quei
tempi “Perché non mi avete chiamato ché venivo anch’io?” Touché!
“Non eri in giro” rispondo sbrigativa per minimizzare “Va dentro, ne vale la pena,
ma fa alla svelta, ché tra poco si parte” Lui entra e dopo 10 minuti scarsi è già
fuori, con i jeans e la giacchina militare. “Davvero bellissima!” esclama.
Sorride, ha le mani in tasca e
alle spalle la magnifica cornice romanica della chiesa.
Ecco l'ultima immagine del mio amico, questo ragazzo che avrebbe compiuto 18
anni di lì a due mesi, se non fosse morto qualche ora dopo.
Poi gli altri ricordi riaffiorano, magari a distanza di giorni o mesi.
Fa freddo, ma ci sono già i prodromi di una primavera incipiente, si annusano più
che altro, persino nell’afrore della nostra Milano inquinata.
Siamo davanti alla Camera del Lavoro, in corso di Porta Vittoria, a far cosa non
so più. Io sono lì che osservo i miei compagni che cantano Stalingrado a
squarciagola, con risultati musicali resi appena accettabili dall’entusiasmo e dalla
fierezza. Sono disposti su due file,
sui gradini che portano all’edificio in puro stile fascista.
Dico i “miei” compagni, perché sono quelli della zona dove c’è anche la mia
scuola. Oltre a Claudio e Massimo, ci sono studenti di altri istituti tecnici vicino al
nostro: Giorgi, Feltrinelli, Pacinotti. Da noi non ci sono licei, siamo in periferia.
Siamo i medi della Romana.
Facciamo politica insieme, riunioni, presidi, volantinaggi, manifestazioni e turni di
ciclostile e abbiamo ovviamente intrecciato amicizie interscolastiche ed
extrapolitiche. Significa andare insieme al cinema la domenica, fare qualche gita
fuori Milano ogni tanto e scambiarsi confidenze intime
tra quelli che hanno legato di più.
Come mi accadeva spesso a quei tempi, mentre ammiravo i miei compagni,
pensavo a cosa sarebbe stato di noi di lì a 10 anni, quando saremmo stati grandi,
ovvero trentenni. Ricordo bene il profilo di Roberto, che era il mio ragazzo, di
Eugenio che era proprio bello e di Claudio che era il mio migliore amico. Erano lì in
fila, di profilo e, dalla mia prospettiva, li vedevo come l’iconografia classica di
Marx, Lenin e Engels sui manifesti e sui giornali dei PCML
(Partito Comunista Marxista Leninista).
Il cuore mi scoppiava d’amore, d’orgoglio e del sacro fuoco della lotta con le
masse popolari sulla via del socialismo e loro cantavano e cantavano…………….
E Claudio, quando intonavamo Valsesia, era tra quelli che si toccavano arrivando
ad una certa strofa, a cui aggiungeva sottovoce qualche parola in più: “ Valsesia,
Valsesia che c’importa se si muor (si fa per dir), questo è il grido del valore,
partigiano vincerààààààààà!”
Sono le 7.30 e sono già a scuola, “noi” dovevamo arrivare prima degli altri per
vigilanza, militanza, volantinaggio e chi più ne ha più ne metta. Fatto sta che
Claudio per arrivare a quell’ora doveva alzarsi alle 6, dato che abitava fuori Milano
e dalla parte opposta della città.
Lo vedo arrivare e mi accingo a riprenderlo perché è in ritardo, ma lui mi precede.
Mi prende sottobraccio e mi porta in disparte “Oggi Emanuela va dal ginecologo a
farsi prescrivere la pillola”. E’ assolutamente radioso.
Non so più se la frase sia stata profferita o solo pensata, ma aleggia palpabile
nell’aria “Finalmente si ciula!”
E’ una domenica mattina: diffusione militante del giornale, attività da noi tutti
odiata. Dovevamo alzarci presto anche nell’unico giorno in cui avremmo potuto
dormire per andare a suonare campanelli di case dove tutti erano ancora in
pigiama e non ci accoglievano certo con gioia.
Io non c’ero andata, non se avevo bigiato e se semplicemente non toccava a me.
Fatto sta, che verso mezzogiorno suona il campanello. Sono Claudio e Roberto.
Claudio ha le mani chiuse a conca, indossa un loden verde e battibecca con
Roberto, come spesso accade. I compagni salutano i miei genitori e si scusano
per il disturbo. Tra le mani Claudio ha un uccellino giallo “L’abbiamo trovato in
Piazza Medaglie d’Oro e non sapevamo cosa fare.
Roberto dice che avete già altri canarini”.
In effetti, mio padre ne aveva una grande voliera piena. Prende il canarino in
mano e decreta che è una femmina, per depositarla poi nella gabbia con gli altri.
Non ricordo il seguito, ma l’immagine di Claudio che entra con le mani giunte,
muovendosi con cautela come un monaco tibetano, è vivissima. La canarina
morirà poco tempo dopo Claudio. Ricordo che piansi a lungo e le lacrime
rimbalzavano sul corpicino che tenevo in mano. So che sembra una storia “come
in un libro scritto male”, ma andò davvero così.
Eccolo di nuovo Claudio, viene a cena da me per poi andare insieme a qualche
riunione. L’ho chiamato a casa chiedendogli di portare un po’ di pane ché ne sono
a corto. Arriva con un sacco da un chilo come minimo, mia madre lo vede e
scoppia a ridere e lui con lei. Ha il suo maglione preferito, bianco, col collo alto, da
pescatore nordico.
Anche mia madre si ricorda questo episodio, si ricorda anche il maglione bianco,
“come se fosse adesso”.
Lela Dall'Acqua
Milano da Settant'anni di Resistenza
Nelle foto:
Claudio Varalli - I funerali di Claudio
- Uno striscione dedicato a Claudio
- Ai funerali
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