“Durante una trasmissione in tv a cui ho partecipato, è successo un fatterello”.
Così comincia un post su Facebook che Maryan Ismail, attivista politica
italosomala, ha pubblicato pochi giorni fa. Il fatterello ha come scenario uno studio
televisivo. Maryan, che fa politica attiva a Milano da molti anni, ha deciso di
contrastare il razzismo parlando in ogni spazio pubblico, tv compresa.
Naturalmente non parla solo di immigrazione, ogni causa importante la trova sulle
barricate: dalla lotta contro il fondamentalismo (ha perso recentemente suo
fratello in un attentato di Al Shabaab a Mogadiscio) fino alle questioni riguardanti la
vivibilità urbana. “Però ho la pelle nera”, dice Maryan sottolineando che la lotta
contro le discriminazioni è una delle voci importanti della sua missione politica. E
spesso per attaccarla gli interlocutori, soprattutto in tv, usano proprio la sua pelle.
“Un tipo di una certa età molto sguaiato”, scrive nel suo post Maryan, “e in preda a
un evidente travaso di bile, stava cercando di mettere insieme due parole
sull’immigrazione e sui costi correlati. Preso in contropiede dalla mia reazione, ha
cominciato a cantarmi in faccia Faccetta nera”.
L’episodio ha avuto come teatro gli studi del programma Forte e chiaro su
Telelombardia ed è andato in diretta televisiva. “Inutile descrivere quello che è
successo”, prosegue Maryan. “Mi limito semplicemente a constatare con infinita
amarezza che un altro limite è stato superato: si è arrivati allo sberleffo razzista
spiattellato in faccia, senza ragione e senza pudore”.
Quando ho saputo la notizia il mio primo sentimento è stata l’indignazione unita
alla solidarietà. Poi però mi sono detta che questo episodio non è solo
etichettabile come razzismo. Lo è, ma è anche molto di più. Ci dice qualcosa di
profondo e grave sulla società in cui viviamo. Ma cosa?
Benito Mussolini odiava Faccetta nera, aveva addirittura tentato di farla bandire
Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci
scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per
umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui
non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele
Mora in Videocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura
del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da
questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo
battente.
Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero,
dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore
culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli
stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci
crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone
del ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello
zumpapà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel
cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba.
Ma chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone?
Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti?
Al mercato, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore
dell'EsercitoAl mercato, 1930 circa.
(Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito)
Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi
sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O
perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle
suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano
dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che
spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in rete in varie
versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi
la canta non sa la sua storia.
Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”. Ma
queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva
addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava
all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che
presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani.
Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso
questa canzone che detestava.
I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: ‘È il loro governo
a ridurli così’, scrivevano, ‘andiamo a liberarli’
Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in
dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al
festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale
dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono
bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini
nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole
conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano
familiari a grandi e piccini.
Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale
postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a
un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al
sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali
satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno
degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni
d’immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”,
spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.
La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di
conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da
quello a cui abbiamo assistito nel novecento e a cui assistiamo ancora oggi.
Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare
gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre.
Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una
canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di
“unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole
andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di
recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa).
E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.
Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità
si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto
D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera
è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo
dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva
nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua
amante del Corno d’Africa: “Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il
suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”. Una terra disponibile,
quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne
del posto, attraverso il concubinaggio,
i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.
Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi
altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho
vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna
eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani
sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.
Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una
canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza
sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: “La legge nostra è
schiavitù d’amore”. Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come
Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi:
anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di
un uomo la può redimere dalla sua condizione.
Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore
dell'EsercitoArmamenti, 1930 circa. (Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico
Stato Maggiore dell'Esercito)
Faccetta nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al
festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e
cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al
teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata
sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con
nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada. La
canzone da quel momento in poi decolla.
La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei
successi del ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo
iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito
cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile
ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese
africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva
faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva
essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era
lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per
perfida ironia della storia, latitano pure oggi.
Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è
troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla
sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata
dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza
saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da
focolare domestico, sottomessa e virginale:
Faccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!
Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità
sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio
attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di
un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.
Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al
centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e
cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo
desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che
ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo
usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello.
L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta,
menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte
desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in
Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società
considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei
bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo
corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.
Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa
canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è
riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.
E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.
Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni
fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo,
con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada
affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata
analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti,
defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il
capro espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un
grande passo in avanti riuscire a parlarne con serenità. Un passo in avanti per
questa Italia che raramente affronta se stessa.
di : Igiaba Scego, scrittrice
.
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