loading...

CONDIVIDETE , grazie

Share

giovedì 21 gennaio 2021

La vera storia di Faccetta Nera

La vera storia di Faccetta Nera


“Durante una trasmissione in tv a cui ho partecipato, è successo un fatterello”. 

Così comincia un post su Facebook che Maryan Ismail, attivista politica 

italosomala, ha pubblicato pochi giorni fa. Il fatterello ha come scenario uno studio 

televisivo. Maryan, che fa politica attiva a Milano da molti anni, ha deciso di 

contrastare il razzismo parlando in ogni spazio pubblico, tv compresa. 

Naturalmente non parla solo di immigrazione, ogni causa importante la trova sulle 

barricate: dalla lotta contro il fondamentalismo (ha perso recentemente suo 

fratello in un attentato di Al Shabaab a Mogadiscio) fino alle questioni riguardanti la 

vivibilità urbana. “Però ho la pelle nera”, dice Maryan sottolineando che la lotta 

contro le discriminazioni è una delle voci importanti della sua missione politica. E 

spesso per attaccarla gli interlocutori, soprattutto in tv, usano proprio la sua pelle.

“Un tipo di una certa età molto sguaiato”, scrive nel suo post Maryan, “e in preda a 

un evidente travaso di bile, stava cercando di mettere insieme due parole 

sull’immigrazione e sui costi correlati. Preso in contropiede dalla mia reazione, ha 

cominciato a cantarmi in faccia Faccetta nera”.

L’episodio ha avuto come teatro gli studi del programma Forte e chiaro su 

Telelombardia ed è andato in diretta televisiva. “Inutile descrivere quello che è 

successo”, prosegue Maryan. “Mi limito semplicemente a constatare con infinita 

amarezza che un altro limite è stato superato: si è arrivati allo sberleffo razzista 

spiattellato in faccia, senza ragione e senza pudore”.

Quando ho saputo la notizia il mio primo sentimento è stata l’indignazione unita 

alla solidarietà. Poi però mi sono detta che questo episodio non è solo 

etichettabile come razzismo. Lo è, ma è anche molto di più. Ci dice qualcosa di 

profondo e grave sulla società in cui viviamo. Ma cosa?

Benito Mussolini odiava Faccetta nera, aveva addirittura tentato di farla bandire

Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci 

scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per 

umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui 

non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele 

Mora in Videocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura 

del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da 

questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo 

battente.

Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero, 

dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore 

culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli 

stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci 

crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone 

del ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello 

zumpapà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel 

cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba.

Ma chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone? 

Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti?

Al mercato, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore 

dell'EsercitoAl mercato, 1930 circa.

 (Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito)

Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi 

sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O 

perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle 

suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano 

dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che 

spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in rete in varie 

versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi 

la canta non sa la sua storia.

Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”. Ma 

queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva 

addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava 

all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che 

presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. 

Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso 

questa canzone che detestava.

I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: ‘È il loro governo 

a ridurli così’, scrivevano, ‘andiamo a liberarli’

Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in 

dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al 

festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale 

dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono 

bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini 

nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole 

conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano 

familiari a grandi e piccini.

Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale 

postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a 

un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al 

sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali 

satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno 

degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni 

d’immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, 

spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.

La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di 

conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da 

quello a cui abbiamo assistito nel novecento e a cui assistiamo ancora oggi. 

Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare 

gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre.

Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una 

canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di 

“unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole 

andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di 

recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). 

E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.

Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità 

si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto

D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera 

è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo 

dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva 

nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua 

amante del Corno d’Africa: “Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il 

suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”. Una terra disponibile, 

quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne 

del posto, attraverso il concubinaggio, 

i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.

Mussolini era solo un delinquente



Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi 

altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho 

vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna 

eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani 

sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.

Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una 

canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza 

sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: “La legge nostra è 

schiavitù d’amore”. Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come 

Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: 

anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di 

un uomo la può redimere dalla sua condizione.

Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore 

dell'EsercitoArmamenti, 1930 circa. (Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico 

Stato Maggiore dell'Esercito)
Faccetta nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al 

festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e 

cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al 

teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata 

sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con 

nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada. La 

canzone da quel momento in poi decolla.

La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei 

successi del ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo 

iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito 

cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile 

ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese 

africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva 

faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva 

essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era 

lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per 

perfida ironia della storia, latitano pure oggi.

Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è 

troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla 

sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata 

dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza 

saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da 

focolare domestico, sottomessa e virginale:

Faccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!

Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità 

sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio 

attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di 

un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.

Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al 

centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e 

cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo 

desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che 

ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo 

usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello.

L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, 

menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte 

desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in 

Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società 

considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei 

bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo 

corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.

Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa 

canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è 

riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.

E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.

Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni 

fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, 

con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada 

affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata 

analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, 

defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il 

capro espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un 

grande passo in avanti riuscire a parlarne con serenità. Un passo in avanti per 

questa Italia che raramente affronta se stessa.

di : Igiaba Scego, scrittrice


.
Siti Internet e Blog Personali

Eseguo
Siti Internet e Blog Personali

Nessun commento:

Posta un commento

#OcchiAperti

loading...
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

Post più popolari