La produttività è piatta da 15 anni, i salari sono praticamente fermi, l’ineguaglianza dei redditi è in aumento e come tasso di occupazione siamo al terzo valore più basso tra i paesi sviluppati, dopo Grecia e Turchia. Inoltre, in Italia più di un giovane su quattro non lavora, né studia, né segue corsi di formazione, una categoria di disoccupati con scarsissime prospettive di lavoro, che è aumentata del 44% negli anni della crisi. Questa cruda descrizione della situazione italiana viene dall’Ocse, organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che ha presentato ieri l’analisi annuale sul mercato del lavoro.
La stagnazione salariale e la bassa produttività sono problemi che affliggono un po’ tutti i paesi sviluppati. Il fatto è che mentre alcuni stanno recuperando il terreno perso dal 2007, altri, come l’Italia, rimangono indietro. “Quasi 10 anni dopo l’inizio della crisi”, scrive l’Ocse dell’Italia, “la crescita dei salari in termini reali è debole, evidenziando il rischio di una stagnazione salariale duratura”. È la cosiddetta “trappola della bassa crescita”: i salari e l’occupazione sono bassi, le famiglie spendono meno, le imprese vendono meno e investono meno. A risentirne alla fine è anche la produttività. Perchè assumere lavoratori poco costosi e flessibili diventa spesso più conveniente che fare efficienza spendendo capitali in macchinari.
Le recenti riforme del lavoro, Jobs act in testa, non sembrano in grado di cambiare in meglio il quadro. La lieve crescita dell’occupazione è infatti legata agli incentivi degli sgravi contributivi e le nuove assunzioni a tempo indeterminato (ma interrompibili in qualunque momento, anche senza giusta causa) sono in buona parte la trasformazione di contratti a termine.
Ieri ha pubblicato il suo rapporto annuale anche l’Inps. I dati mostrano che quasi la metà dei contratti attivati con le decontribuzioni sono “stabilizzazioni di lavoratori all’interno della medesima impresa”. Inoltre, la stabilizzazione dei contratti di lavoro spesso non è accompagnata dal tempo pieno: “quattro lavoratori su 10 assunti con contratto a tempo indeterminato – segnala l’Inps – hanno impeghi part time”. Il risultato è sempre che le famiglie faticano ad arrivare a fine mese.
Che la trappola della bassa crescita sia particolarmente insidiosa in Italia e abbia costi sociali alti lo si è capito ieri anche dalle parole del presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, in un audizione al Senato, convocata in relazione al disegno di legge sul contrasto alla povertà presentato da Stefano Lepri(Pd). Alleva ha spiegato che oltre la metà delle famiglie italiane nel 2015 ha limitato le spese per il cibo e una su cinque ha provato a risparmiare anche sulle spese sanitarie. Il 63% cerca di fare economie su abbigliamento e calzature, uno dei settori di punta del made in Italy. Grandi sono le differenze tra regione e regione. La Calabria risulta essere la regione con la spesa mensile familiare più bassa, 1.729 euro, mentre Lombardia, Trentino – Alto Adige ed Emilia – Romagna sono le regioni con la spesa mensile più elevata, tutte e tre attorno ai 3mila euro.
A questa crisi finora non si è risposto in modo adeguato: “gli interventi sociali a sostegno delle Famiglie – ha spiegato Alleva – in Italia pesano per il 4,1% della spesa totale per le prestazioni sociali. Un valore tra i più bassi in Europa”. Va ricordato peraltro che l’Italia, a differenza di tutti gli altri paesi europei, eccetto la Grecia, non ha alcuna forma stabile di sostegno al reddito, il cosiddetto reddito di cittadinanza. Uno strumento che in tempi di crisi argina la caduta dei consumi.
Per gli analisti dell’ Ocse, la via d’uscita dalla trappola sono politiche strutturali, che portino a una crescita sostenibile, in grado di assicurare benefici più equamente distribuiti, incluso un più ambizioso uso delle politiche di bilancio. E anche ulteriori riforme strutturali.
Dopo anni di catechismo neoliberista, dunque, l’ufficio studi dei paesi ricchi riconosce che senza mettere in campo l’intervento pubblico, dalla stagnazione secolare non si esce.
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